Il pecorino romano
Come da consuetudine ormai, mi piace inframezzare i post leggeri e spassosi del mio blog con gli articoli più specifici e “culturali” che scrivo per l’Accademia Italiana della Cucina. Di questo sono particolarmente orgogliosa, visto che ho avuto l’onore di scrivere del pecorino romano. Il formaggio più rappresentativo di Roma, forse il più antico formaggio di cui si ha conoscenza, il punto di forza della nostra cucina romana, una cucina decisa, rurale e genuina cui solo un formaggio come il pecorino può tenere testa. Le ricerche come sempre sono state vaste e dettagliate. Ci sarebbe da dire moltissimo sul nostro pecorino ma per ragioni “editoriali” mi sono limitata alle notizie importanti. Buona lettura!
Pochi formaggi al mondo vantano origini così antiche come il Pecorino Romano: formaggio a pasta dura e cotta, prodotto con latte ovino intero proveniente da greggi allevate allo stato brado e alimentate su pascoli naturali. Il Pecorino romano nasce con la pastorizia naturalmente; nell’Agro Romano, già un paio di secoli prima di Cristo, era una risorsa economica importante e l’arte casearia ne era direttamente collegata. Il Pecorino infatti è considerato il prodotto naturale delle campagne romane. Certo, oggi, il pastore coperto di pelli che si aggira per la campagna romana è un ricordo pinelliano eppure, ancora si trovano delle forme genuine prodotte proprio nella campagna attorno alla città. La tradizione romana vuole che la forma di pecorino sia di 33–35 kg, la pasta compatta o leggermente occhiata, di colore che può variare dal bianco al paglierino più o meno intenso. E’ caratteristico il suo sapore aromatico e variamente piccante a seconda della stagionatura: 5 mesi per il formaggio da tavola e almeno 8 mesi per quello da grattugia, perfetto per insaporire i piatti tipici della tradizione romana: cacio e pepe in prima linea, seguito da gricia e matriciana.
L’attuale Consorzio di Tutela del Pecorino Romano si occupa di garantire l’autenticità e le caratteristiche di lavorazione di questo antico formaggio prodotto anche nella bassa Toscana e in Sardegna, anche se il Pecorino Romano con la “lacrima” è solo quello delle campagne laziali. E c’è una spiegazione scientifica: i pascoli attorno alla città sono ricchi di quelle essenze erbacee che conferiscono a questo formaggio il suo caratteristico sapore. La lavorazione del Pecorino Romano riprende le usanze e le consuetudini dei nostri pastori di tanti secoli fa, mantenendole intatte. Ed esattamente come secoli fa, la salatura del pecorino avviene esclusivamente “a secco”, ovvero manualmente con sale marino, e non, come accade in molte altre realtà, in salamoia con l’immersione in soluzione salina. La salatura viene effettuata a mano, applicando una sorta di “massaggio” alla forma nel corso dei mesi di stagionatura per cui il Pecorino Romano assume poi quel particolare e caratteristico sapore piccante, senza risultare troppo salato al palato. La stagionatura “naturale” contribuisce poi alla qualità del prodotto preferendo un lento e delicato processo all’interno delle antiche grotte di tufo Etrusco-Romane (risalenti al I sec. A.C.) che si trovano nell’area archeologica di Prima Porta. Non bisogna poi dimenticare il colore nero della forma del Pecorino Romano, la “Cappatura Nera” in gergo caseario, simbolo della tradizione romana. Un tempo dovuta alla tecnica di massaggio delle forme con olio e morchia o cenere, oggi composta di vari strati di film plastici. L’antico metodo di lavorazione, molto simile dunque a quello attuale, fu descritto da Columella, proprio nel trattato “De re Rustica” in cui l’autore riporta minuziosamente le tecniche di lavorazione del latte ovino.
Virgilio, invece, già nel 48 A.C., ne descriveva le proprietà nutritive raccontando che il consumo giornaliero imposto ad ogni soldato romano era di 27 grammi al giorno. Una razione che andava ad integrare il pasto base di zuppa di farro, fornendo la giusta dose di energia per affrontare le battaglie e i continui spostamenti.
Grazie alle proprietà nutritive e alla facilità di trasporto e di conservazione, la sua tecnica di trasformazione nei secoli si è diffusa in Toscana e in Sardegna perché, in quest’ultima in particolare sussistevano le identiche condizioni ambientali e di allevamento: razze ovine autoctone, pascoli incontaminati e ricchi di erbe aromatiche che regalano al formaggio l’intensità del gusto che lo caratterizza. I pecorini romani prodotti nel Lazio sono decisamente più sapidi e fedeli all’identità di questo formaggio, mentre i pecorini romani prodotti in Sardegna sono mediamente più dolci e immediati, apprezzabili da chi ama sapori più delicati. Più o meno sapido, il pecorino romano deve comunque esprimere la forza della campagna romana e un’aromaticità che riconduce al latte, al pascolo e alle pecore, distinguendosi in particolare per quel suo afrore rustico che è il segno più identificativo di questo formaggio. Nel 1996 al Pecorino Romano è stata assegnata la DOP.
FAVA E PECORINO
Il Pecorino Romano trova la sua sublimazione massima nella fava. Non ha rivali quando arrivano le prime fave freschissime, e tassativamente dell’Agro Romano. Fave e Pecorino sono i protagonisti assoluti della festa dei Lavoratori del 1 Maggio (detta anche “Maggetto” dai romani) durante le scampagnate, nelle sagre e manifestazioni e per le giornate di svago da trascorrere all’aria aperta.
Si legge delle fave già nelle citazioni bibliche e nei testi classici, con un significato mistico inizialmente negativo. I Greci le legavano alla morte: il baccello rappresentava l’accesso al mondo dei morti e i semi si pensava racchiudessero le anime dei defunti. Da qui, l’usanza di mangiare i dolcetti detti “fave dei morti” il 2 novembre. Soltanto successivamente, la fava assunse finalmente un significato positivo, diventando un simbolo di erotismo e fecondità. In questa nuova veste positiva, le fave si utilizzarono per celebrare la dea Flora, protettrice della natura in fiore e della rinascita. L’alimento perfetto per le scampagnate primaverili e le gite “for de porta”. Occasioni invitanti per catturare i primi raggi di sole della bella stagione gustando l’accoppiata ideale tra fave e pecorino.
Aldo Fabrizi – Riso e Fave
Secondo Apicio Gaio, er grande Sceffe
de Roma antica, ne le notti brave
de Nerone e Poppea, tra schiavi e schiave,
le fave se gustaveno a bizzeffe.
Antro che orgie e “Cene delle beffe”
se salutava alla romana”Fave!”
ma poi parse più fino a disse “Ave!”
così ar saluto cetajarono l’effe.
Da secoli la fava quanno è fresca
s’aggusta soprattutto assieme ar cacio
etantoppiù si è quella romanesca.
Ma apparte la notizia letteraria
su ‘sto legume de ricette ar bacio
ce stà ‘na fantasia de culinaria.
Francesca Romana Castellani
Accademia Italiana della Cucina
Centro Studi Territoriali Lazio (Roma)