La cucina del riuso – Le frittate
Questo post è un articolo che mi è stato commissionato dal Centro Studi dell’Accademia Italiana della Cucina e che sarà pubblicato nel volume “La cucina del riuso”, che conterrà la storia, le tradizioni e le ricette sulla cucina del riuso di ogni regione d’Italia. Io rappresento la delegazione di Roma e tra i tanti argomenti interessanti da trattare, mi è stato assegnato quello sulle “frittate”. Questo articolo è il condensato di mesi di ricerche presso la Biblioteca Nazionale, la Fondazione Marco Besso, la consultazione di libri antichi o fuori catalogo, alcuni parte della mia biblioteca culinaria, interviste e chiacchiere con chef romani tra cui Arcangelo Dandini, che ringrazio in modo particolare per la sua collaborazione e per i suoi testi. Il mio articolo verrà pubblicato a fine anno ma ho pensato di anticiparlo nel mio blog perché ritengo possa destare interesse e curiosità, soprattutto per alcune ricette ormai cadute in disuso che invece io trovo estremamente interessanti. Buona lettura!
“La frittata è probabilmente una delle preparazioni più antiche e diffuse in cucina. Il termine deriva dal latino “frixùra”, da fritto, participio passato del verbo friggere.
Si tratta di semplici uova sbattute e fritte in una padella tonda, con l’aggiunta di vari ingredienti durante la, o al termine della, cottura.
Già Apicio, nel suo “De re coquinaria”, nel capitolo “per cocer ova in ogni modo”, descrive la preparazione delle frittate ai tempi dei Romani. Tra le numerose ricette: la frittata con la lattuga, menzionata anche nel più recente testo di cucina “La Romanesca”, in cui ritroviamo gli stessi ingredienti ma con l’aggiunta di mollica di pane bagnata e strizzata. Ormai pochi romani conoscono questa ricetta che va a sommarsi ai piatti dimenticati costituiti da ingredienti poveri e facilmente reperibili. Apicio comunque, come poi Artusi nel suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, raccomandano di non rivoltare mai la frittata in padella ma cuocerla da un solo lato e rivoltarla poi direttamente sul piatto a cottura terminata.
Pellegrino Artusi
La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891).
“Chi è che non sappia far le frittate? E chi è nel mondo che in vita sua non abbia fatta una qualche frittata? Pure non sarà del tutto superfluo il dirne due parole.
Le uova per le frittate non è bene frullarle troppo: disfatele in una scodella colla forchetta e quando vedrete le chiare sciolte e immedesimate col torlo, smettete. Le frittate si fanno semplici e composte. (…) Non si cuoce che da una sola parte, il qual uso è sempre da preferirsi in quasi tutte. Quando è assodata la parte di sotto, si rovescia la padella sopra un piatto sostenuto colla mano e si manda in tavola”.
La cucina romanesca popolare nasce dall’incontro tra la tradizione importata dagli ebrei trapiantati a Roma a seguito dei vari esodi e quella contadina proveniente dalle vie consolari, lungo le quali giungevano, dall’agro romano, verdura, formaggi, vino e animali. Una cucina semplice, da sempre intimamente legata ai prodotti della terra, esaltata da sapori chiaramente identificabili e, anche se spesso realizzata con materie prime “povere”, mai banale. Per capire come sia nata veramente la cucina romanesca è necessario approfondire le tradizioni culturali di Roma, fondersi con esse, percorrendo le tracce della memoria, orale e scritta, delle nonne romane, di osti e di artisti, oltre, naturalmente, di autori classici come Ada Boni, Livio Jannattoni, Luigi Carnacina, solo per citare alcuni nomi.
Le frittate “povere” di tradizione romana o giudaico-romanesca nascono dall’esigenza di sfruttare gli avanzi o gli ingredienti poveri di facile reperibilità utilizzati per dare “sostanza” alla frittata, arricchita spesso soltanto di erbe selvatiche, del tutto gratuite. Pensiamo ai getti amarognoli della vitalba, solo leggermente velenosi, che il popolino a Roma usava appunto nelle frittate spacciandoli per “asparagi” (frittata di “vitalbini” o di “ticchi”, come dicevano i tanti “marchiciani” immigrati in città). Decine e decine di erbe comunissime, d’uso quotidiano nella cucina romana, anche miste (“misticanza” a crudo o da cuocere, a seconda della durezza). E del resto, una cipolla o qualche foglia di cavolo, la massaia, volendo, l’avrebbe ottenuta gratis o quasi dal “verduraro”.
Frittata della bbona famija Ingredienti: quattro uova, 1 o 2 cipolle (o getti di vitalba, o altro ortaggio o verdura) tagliate fine, mentuccia tritata, olio, sale e pepe q.b. Istruzioni. Far stufare un poco cipolle o verdure, versarle in una capace scodella o insalatiera, aggiungere la mentuccia, poi le uova ben sbattute, e amalgamare. In una padella larga, scaldare poco olio e versare il tutto. Far cuocere bene, a fuoco basso, da entrambi i lati.
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Il Belli descrive pittorescamente la cena povera di una famiglia romana del popolo nel sonetto “La bbona famijja”:
“Mi’ nonna a un’or de notte che vviè Ttata
Se leva da filà, ppovera vecchia,
attizza un carboncello, sciapparecchia,
e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Quarche vvorta se fâmo una frittata,
chessi la metti ar lume sce se specchia
come fussi a ttraverzo d’un’orecchia:
quattro nosce, e la scena è tterminata”.
Un’altra frittata “povera” tipica di cui si è persa memoria e tradizione è sicuramente la cosiddetta “frittata rognosa”che figurava spesso sul menù di certe osterie romane senza pretese, alla voce “stuzzicarelli”.
Occorre un etto di prosciutto da tagliare in strisce larghe un dito; farle imbiondire in una padella con un cucchiaio di strutto. Aggiungere poi le uova sbattute già con un po’ di pecorino e far cuocere da entrambe le parti. Come antipasto va servita fredda, tagliata a spicchi stretti.
In un sonetto Di G.G. Belli del 26 dicembre 1844 (La mojjetta de bbon core) un popolano disperato promette che se avrà la grazia farà vere e proprie pazzie, come dar fuoco alla casa e gustare finalmente due piatti da sempre sognati: una ricca frittata “rognosa”, cioè farcita di prosciutto e guanciale (Ravaro, Diz Roman. 2005), e un piatto di “maccaroni cor zughillo”:
Si Ddio me fa sta grazzia, senti, sposa,
do ffoco a ccasa: vojjo fà uno strillo.
Vojjo maggnà ’na frittata roggnosa
e bbravi maccaroni cor zughillo».
Adolfo Giaquinto, cuoco, poeta e giornalista con una vita dedita all’arte culinaria, (e lo ricordiamo, zio di Ada Boni) nel suo famoso testo “Cucina di famiglia e pasticceria” del 1899, nella parte dedicata alle uova racconta della “Frittata di famiglia”, in sostanza una frittata fatta di riso cotto alla milanese.
Frittata di famigliaCuocere 200 gr di riso a risotto alla milanese e fatelo raffreddare. Dopo rompete 12uove, sbattetele e mischiate in esser accuratamente il risotto e con questo composto fate la frittata. |
Ada Boni in “Cucina romana”, libro scritto e pubblicato nel 1930, con l’obiettivo dichiarato di salvare una cucina tradizionale che si andava perdendo, scrive: “Insieme con le comuni frittate, che nulla hanno di speciale e di caratteristico, la cucina romana accorda larga ospitalità ad un genere di frittata composta, in cui insieme con le uova entrano altri elementi. Le più usate di queste frittate sono: la frittata con la cipolla, con cipolla, guanciale e pomodoro, con i carciofi e con le zucchine”. Cita anche, naturalmente, una delle frittate più rappresentative tra quelle della cucina del riuso: la “frittata con l’allesso”: “Le vecchie romane avevano costume di utilizzare talvolta del lesso avanzato preparandoci una non disprezzabile e saporita frittata”.
Preparazione che viene celebrata anche nel sonetto romanesco“Frittata co’ l’allesso” di Mario Berenato, uno dei poeti del Centro Romanesco Trilussa che negli anni ’70 tentarono di tramutare in versi, quasi sempre con esito veramente felice, le ricette della cucina romana del romano Luigi Carnacina.
Frittata con l’allessoSi trita il bollito avanzato sul tagliere aggiungendoci un po’ di prezzemolo. Si affetta una cipolla e si raccoglie in una padella con una cucchiaiata di strutto. Quando la cipolla sta per imbiondire, si aggiunge il lesso tritato e lo si fa insaporire, mescolandolo di quando in quando. Si sbattono le uova, si condiscono con sale e pepe e si versano nella padella, ultimando la frittata come al solito. |
Mezza dozzina d’ova, pepe e sale,
se trita e ce s’ammischia un po’ d’erbetta.
D’allesso magro un etto, fetta a fetta,
tajato come l’ostie, tale e quale.
De strutto giusto er tanto che impecetta
erfonno a la padella, bene o male.
Gnent’ojo, mejoer sugo dermajale
cheinzaporisce e imporpa la scarpetta.
Se mette la padella, se controlla
quanno lo strutto chiacchiera cor foco
e ce s’affonna un trito de cipolla.
Sbatacchia l’ova e tutto, quanno hai fatto,
butta in padella. E’ bona, costa poco
e ne vorresti sempre un arto piatto.
Stesso principio valido per le fettuccine domenicali avanzate, che finivano immancabilmente in una frittata di pastasciutta (se erano poche) o in una teglia, infornate e servite con una bella filatura di mozzarella o di “provatura” (un formaggio di bufala ormai introvabile, portato a Roma dai pastori della Palude Pontina, noto con il nome di“Marzolina”, dovuto al fatto che a marzo si interrompeva l’allattamento dei piccoli. Il nome “provatura” invece deriva dalla prova che il pastore faceva per controllare la filatura della pasta).
Frittata di pastasciuttaUn piatto davvero semplice da preparare e che può essere arricchito con qualche ingrediente a scelta. Ingredienti per 4 persone: 400 gr di pasta avanzata. 3 uova sbattute. Parmigiano: 1 cucchiaio. Sale e pepe: (q.b.). Olio per ungere la padella: (q.b.) |
Arcangelo Dandini, chef romano contemporaneo, rappresentativo della nostra cultura culinaria e custode di una cucina romana molto legata ai suoi ricordi d’infanzia, nel libro “Memoria a mozzichi” cita una frittata con mentuccia e pecorino: “Ricordo della Quaresima, simile all’uovo in trippa alla romana, il piatto di magro che si mangiava durante la Quaresima pasquale, quando la carne era vietata. Un piatto a base di uova ed erbe selvatiche che veniva messo a volte in una densa salsa di pomodoro alla quale si aggiungevano altra mentuccia e altro pecorino. Una sorta di trippa fatta senza carne”.
Un altro tipo di frittata molto popolare sulle tavole romane e forse tra le frittate più rappresentative della cucina del riuso e della cucina povera romana è la frittata alla burina. Probabilmente il nome “alla burina” deriva dal fatto che gli ingredienti usati si trovano in tutte le campagne, erano i prodotti tipici dei contadini nostrani. E poi “fori porta” a Roma erano tutti “burini”!
Il termine “burino”, in dialetto romanesco, si riferisce al contadino, colui che viene dalla campagna, ed è poi diventato (ingiustamente…) sinonimo di persona rozza, a volte volgare.
La frittata alla burina, piatto preparato con i tipici prodotti della campagna romana, lattuga e pecorino, porta alla mente proprio i contadini. Erroneamente si pensava che provenisse da “buro – burini”, cioè burro, venditori di burro. In realtà da una ricerca più attenta salta fuori che deriva dal latino “buris-is”, ovvero il manico dell’aratro in riferimento ai braccianti della Romagna, all’epoca dell’appartenenza al territorio dello Stato Pontificio, ingaggiati come lavoratori stagionali nell’Agro Romano.
Frittata alla burina Lavare accuratamente la lattuga, asciugarla bene e ridurla a listarelle. In una terrina battete le uova con il sale, il pepe e il pecorino romano. Aggiungete le listarelle di lattuga. Nel frattempo fate scaldare un cucchiaio di olio in una padella e quando è ben caldo versateci il composto. Una girata e una rivoltata… e la frittata è fatta! |
Non poteva mancare il poeta romano Trilussa che celebra la frittata in suo sonetto (tratto da “Quaranta sonetti romaneschi” – 1895)
‘Na frittata in campagna
- Sor oste. – Che civòle? – Una frittata.
- De quant’ova? – De quattro. – A regazzino.
Va’ de là, pia quattr’ova de giornata.
- De giornata? So’ tutte corpurcino.
- Di’ piano. La padella? – Sta attaccata.
L’erba pepe? – Sta sotto ar tavolino,
- Damme lo strutto. – Nonna ce s’è ontata
Le scarpe. – Damme l’ojo de’ llumino,
Sverto, nunt’addormì’. Tiè’ qui ‘sto piatto,
Sbattece l’ova, – Nunvedete? E’ sporco
De semmolella; cià magnato er gatto.
- Mejo! Accusì je vie’ più saporita.
- C’è cascata ‘na mosca? – Ingrassa er porco.
- Sor oste, ‘sta frittata? – Ecco, è servita.”